Le 10 catechesi Family 2012 - Il Lavoro Sfida per la Famiglia
7. IL LAVORO SFIDA PER LA FAMIGLIA
A. Canto e saluto iniziale
B. Invocazione dello Spirito Santo
C. Lettura della Parola di Dio
D. Catechesi biblica
1. Il Signore Dio piantò un giardino in Eden. Il giardino in Eden è un dono che viene dalle mani di Dio, un luogo splendido, ricco dell’acqua che irriga tutto il mondo. Il primo compito che Dio affida all’uomo dopo averlo creato è di lavorare nel suo giardino, coltivandolo e custodendolo. L’alito di vita che Dio ha infuso nell’umanità, la arricchisce di creatività e di forza, di genialità e di vigore, affinché sia in grado di collaborare all’opera della sua creazione.
Dio non è geloso della sua opera, ma la mette a disposizione degli uomini, senza alcuna diffidenza e con grande generosità. Non solo Egli affida alla loro cura ogni altra sua creatura, ma fa dono agli uomini dello spirito affinché essi partecipino attivamente alla sua creazione, plasmandola secondo il suo disegno. Lo spirito è la risorsa che Dio ha posto nella creatura umana affinché si prenda cura, per Lui e con Lui, dell’intero creato.
Gli uomini non sono stati creati, come sostenevano alcune religioni dell’Antico Oriente, per sostituire il lavoro degli dèi o per essere i loro schiavi nei servizi più umili. L’umanità è stata voluta da Dio per prendersi cura della natura creata collaborando attivamente alla sua opera creativa.
Nella tradizione biblica il lavoro manuale gode di grande considerazione e nelle scuole rabbiniche è abbinato allo studio. Oggi a fronte di un crescente disprezzo per alcuni tipi di professioni, specialmente artigianali, è quanto mai opportuno riscoprire la dignità del lavoro manuale. La custodia e la coltivazione del giardino terrestre affidato da Dio all’umanità non riguarda solo la mente e il cuore, ma impiega anche le mani. Il lavoro agricolo e la produzione artigianale e industriale rimangono due capisaldi del lavoro attraverso cui gli uomini contribuiscono allo sviluppo di ciascuna persona e della società intera. Come dice la Laborem Exercens, 9: «Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità – perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”».
2. Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden. Non solo Dio pianta un giardino, ma vi pone ad abitare l’uomo. Il giardino terrestre è donato agli uomini affinché vivano in comunione tra di loro e, lavorando, si prendano reciprocamente cura della loro vita. Il lavoro non è una punizione divina, come s’immaginava nei miti antichi, né condizione di schiavitù, come si pensava nella cultura greco-romana: è piuttosto un’attività costitutiva di ogni essere umano. Il mondo attende che gli uomini si mettano al lavoro. Hanno la possibilità e la responsabilità di attuare nel mondo creato il disegno di Dio Creatore. In questa luce, il lavoro è una forma con cui l’uomo vive la sua relazione e la sua fedeltà a Dio.
Il lavoro non è quindi il fine della vita: esso conserva la sua giusta misura di mezzo. Il fine è la comunione e la corresponsabilità degli uomini con il loro Creatore. Se il lavoro diventa un fine, l’idolatria del lavoro prenderebbe il posto della collaborazione richiesta da Dio agli uomini. Ad essi non è semplicemente chiesto di lavorare, ma di «lavorare custodendo e coltivando» la creazione divina. L’uomo non lavora in proprio, ma collabora all’opera di Dio. La sua collaborazione, peraltro, è attiva e responsabile, cosicché egli, rifuggendo la pigrizia ed esercitando la laboriosità, «custodisce e coltiva» la terra «lavorando».
Il lavoro previsto per l’uomo nel giardino di Eden è quello del contadino, consistente principalmente nell’aver cura della terra affinché il seme in essa sparso sprigioni tutta la sua fertilità, dando frutto in abbondanza. Promuovere la creazione senza stravolgerla, far tesoro delle leggi inscritte nella natura, porsi al servizio dell’umanità, di ogni uomo e donna creati a immagine e somiglianza di Dio, operare per liberarli da ogni forma di schiavitù, anche lavorativa: sono alcuni dei compiti assegnati all’uomo affinché contribuisca a fare dell’umanità un’unica grande famiglia.
3. Perché lo coltivasse e lo custodisse. Mentre nel primo racconto di creazione (Gen 1) si prospetta all’uomo di dominare sugli animali e di soggiogare la terra, nel secondo racconto (Gen 2) si allude piuttosto alla semina e alla coltivazione. E se nel primo racconto non si intende un dominio dispotico, quanto piuttosto la generosa signoria del sovrano che saggiamente ed equamente ricerca il bene del suo popolo, nel secondo si rimanda alla pazienza e alla speranza, nell’attesa dei frutti.
Nel tempo dell’attesa, all’uomo è chiesta la virtù della fedeltà, simile a quella richiesta a coloro che, in Israele, prestavano servizio religioso nel tempio. La laboriosità dell’uomo esige inoltre l’umiltà del contadino che osserva la terra per indovinare come meglio coltivarla, come pure la modestia del falegname che lavora il legno rispettando le sue venature.
Il giusto sfruttamento delle risorse terrestri implica la salvaguardia del creato e la solidarietà con le future generazioni. Una massima indiana insegna che «non dovremmo mai pensare di aver ereditato la terra dei nostri padri ma di averla presa in prestito dai nostri figli». Il compito di custodire la terra esige il rispetto della natura, nel riconoscimento dell’ordine voluto dal suo Creatore. In tal modo, il lavoro umano sfugge alla tentazione di dilapidare le ricchezze e deturpare la bellezza del pianeta terra, rendendolo invece, secondo il sogno di Dio, il giardino della convivenza e della convivialità della famiglia umana, benedetta dal Padre dei cieli.
4. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane. Il rischio che il lavoro divenga un idolo vale anche per la famiglia. Ciò accade quando l’attività lavorativa detiene il primato assoluto rispetto alle relazioni familiari, quando entrambi i coniugi vengono abbagliati dal profitto economico e ripongono la loro felicità nel solo benessere materiale. Il rischio dei lavoratori, in ogni epoca, è di dimenticarsi di Dio, lasciandosi completamente assorbire dalle occupazioni mondane, nella convinzione che in esse si trovi l’appagamento di ogni desiderio. Il giusto equilibrio lavorativo, capace di evitare queste derive, richiede il discernimento familiare circa le scelte domestiche e professionali. A tal riguardo appare ingiusto il principio che delega solo alla donna il lavoro domestico e la cura della casa: tutta la famiglia deve essere coinvolta in tale impegno secondo un’equa distribuzione dei compiti. Per quanto concerne, invece, l’attività professionale, è certo opportuno che i coniugi si accordino nell’evitare assenze troppo prolungate dalla famiglia. Purtroppo la necessità di provvedere al sostentamento della famiglia troppo spesso non lascia ai coniugi la possibilità di scegliere con saggezza ed armonia.
La trascuratezza della vita religiosa e familiare contravviene al comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo, che Gesù ha indicato come il primo e il più grande (cf Mc 12,28-31). Riconoscere il suo amore di Padre con tutti i suoi doni, vivere in tale orizzonte è ciò che Dio desidera per ogni famiglia umana. Riconoscere l’amore del Padre che è nei cieli e viverlo sulla terra è la vocazione propria di ogni famiglia.
La fatica è parte integrante del lavoro. Nell’attuale epoca del «tutto e subito», l’educazione a lavorare «sudando» risulta provvidenziale. La condizione della vita sulla terra, solo provvisoria e sempre precaria, contempla anche per la famiglia fatica e dolore, soprattutto per quanto riguarda il lavoro da compiere per sostentarsi. La fatica lavorativa trova, però, senso e sollievo quando viene assunta non per il proprio egoistico arricchimento, bensì per condividere le risorse di vita, dentro e fuori la famiglia, specialmente con i più poveri, nella logica della destinazione universale dei beni.
Talora i genitori eccedono nell’evitare ogni fatica ai figli. Essi non devono dimenticare che la famiglia è la prima scuola di lavoro, dove s’impara ad essere responsabili per sé e per gli altri dell’ambiente comune di vita. La vita familiare, con le sue incombenze domestiche, insegna ad apprezzare la fatica e a irrobustire la volontà in vista del benessere comune e del bene reciproco.
E. Ascolto del Magistero
Il cristiano riconosce il valore del lavoro, ma sa vedere in esso anche le deformazioni introdotte dal peccato. La famiglia cristiana per questo accoglie il lavoro come una provvidenza per la sua vita e la vita dei suoi familiari. Ma evita di fare del lavoro un valore assoluto e considera questa tendenza, oggi tanto diffusa, come una delle tentazioni idolatriche dell’epoca. Non si limita ad affermare un diverso convincimento. Essa imposta la sua vita in modo che risalti una priorità alternativa. Fa sua la preoccupazione di Laborem Exercens 9, affinché nel «lavoro, mediante il quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità».
Lavoro: un bene per la persona e la sua dignità
Eppure, con tutta questa fatica – e forse, in un certo senso, a causa di essa – il lavoro è un bene dell’uomo. Se questo bene comporta il segno di un «bonum arduum», secondo la terminologia di San Tommaso, ciò non toglie che, come tale, esso sia un bene dell’uomo. Ed è non solo un bene «utile» o «da fruire», ma un bene «degno», cioè corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce. Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli occhi prima di tutto questa verità. […]
Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo. Questo fatto non cambia per nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. E noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo, che si può punire l’uomo col sistema del lavoro forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell’obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con l’ordine sociale del lavoro, che permetterà all’uomo di «diventare più uomo» nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, é inevitabile), ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie. [Laborem Exercens, 9]
F. Domande per il dialogo di coppia e in gruppo
Domande per la coppia
- Sappiamo sostenerci nelle nostre rispettive fatiche professionali?
- Ricerchiamo con interesse occasioni in cui svolgere insieme un lavoro manuale?
- I nostri figli comprendono la fatica del lavoro e il valore dei soldi guadagnati con l’impegno e la fatica?
- Sappiamo condividere i proventi del nostro lavoro anche con i poveri?
Domande per il gruppo familiare e la comunità
- Come la crisi economica incide sulla vita delle nostre famiglie?
- Nelle nostre comunità cristiane ci si preoccupa per quanti sono disoccupati, oppure svolgono un lavoro precario, poco retribuito o insalubre?
- Quali scelte concrete può fare la famiglia per educare i più piccoli alla «salvaguardia del creato»?
- Esistono ancora forme di schiavitù nel mondo lavorativo? Come vincerle, affrontarle e superarle?